lunedì 9 giugno 2008

Intervista ad ALFREDO BIONDI: Sviluppare un programma liberale moderno

di Paolo Di Muccio
In un’intervista sul Giornale di qualche giorno fa, Lei ha rivelato di essere stato escluso dal Parlamento per il Suo eccessivo attivismo su temi sensibili come le coppie di fatto. Del resto, si sa, Berlusconi non ama chi esprime opinioni autonome. E infatti tutti i liberali scomodi sono stati in certa misura “trombati” dal Principe. L’Italia liberale dovrebbe sentirsi delusa da Berlusconi?
La domanda è formulata in maniera provocatoria. Io invece cercherò di rispondere in termini obiettivi. Non so quanto autonomamente abbia lavorato chi ha fatto le candidature, ma non penso di essere stato oggetto di un veto diretto di Berlusconi. E non mi sono espresso tanto a favore delle coppie di fatto, quanto a favore di un modo civile di risolvere il problema delle convivenze. La mia soluzione, apprezzata dallo stesso Berlusconi, è stata forse ritenuta un po’ troppo liberale all’interno di Forza Italia. Allo stesso modo può aver dato fastidio il mio sostegno voltairiano alla lista di Giuliano Ferrara. Penso comunque che la mia esclusione sia stata determinata da una valutazione di carattere complessivo. Sono un amico leale, ma ho un carattere gobettiamo: è sua la frase “Ma cosa ho da spartire con i servi”. E poi è stato facile servirsi del paravento dell’età: al grido “largo ai giovani” si è trovato il posto per quelli di mezza età...

Lei, fra tutti i liberali della vecchia guardia, è probabilmente il più popolare e sicuramente il più arguto e autoironico. Ha reagito alla Sua “trombatura” con grande signorilità. Ha perfino ammesso di non riuscire a smettere completamente di credere alle promesse di Berlusconi, che ora La blandisce con la garanzia di un posto in Corte Costituzionale. Antonio Martino, invece, commette spesso un peccato alquanto grave per un liberale anglofilo: prendersi troppo sul serio. Escluso dal Governo, ha strepitato come un principino. Ora invece tace rigorosamente. Cosa gli ha promesso Berlusconi?
Guardi, i “trombati” sono quelli che si presentano e non vengono eletti. Io sono semplicemente stato escluso dalla Camera dei Nominati... più che dei Deputati! Per quanto riguarda la Corte Costituzionale, non si può negare che io abbia ricevuto il maggior numero di voti all’ultima votazione. È altrettanto vera la promessa di Berlusconi e di Bondi. Ogni promessa è debito per un galantuomo, ma un uomo di stato ha anche altri doveri da assolvere, restando galantuomo nel privato. Non penso che Martino sia inattivo perché Berlusconi gli ha promesso qualcosa. Penso piuttosto che alle sue grandi doti accademiche e politiche l’ex-ministro della Difesa associ a volte un orgoglio, apprezzabile di questi tempi!

Al convegno di Montesilvano della Parte Liberale del Pdl (associazione fondata da Diaconale, Giacalone e Taradash che si propone di aggregare tutti i liberali del Pdl) Lei ha detto di voler contribuire a lanciare, in autunno, una nuova costituente liberale. Bisogna però ammettere che i precedenti tentativi di aggregazione sono miseramente falliti. Quali ne sono, secondo Lei, i motivi, e perché pensa che questa possa essere la volta buona nonostante i pareri negativi di Daniele Capezzone e Benedetto Della Vedova?
Sotto elezioni c’è una certa resistenza a definirsi “liberali e basta” o, come direbbe Martino, “semplicemente liberali”. C’è chi preferisce intrupparsi. Inoltre è difficile aggregare chi crede nel principio dell’autonomia individuale. Detto questo, non sono d’accordo con Capezzone e Della Vedova: penso che in un grande partito come il Pdl ci sia l’esigenza di una posizione liberale dichiarata, basata su dei princìpi fermi. E non mi riferisco ad una corrente, ma ad un’area. Sono ancora presidente del consiglio nazionale di FI e auspico che, quando verrà riunito, i liberali si facciano vivi, compreso lo stesso Martino. Nel frattempo sto collaborando ad organizzare una serie di iniziative liberali sul territorio del nord-ovest insieme a Raffaele Costa e ad Enrico Musso. Partiamo il 28 giugno con due convegni gemellati, uno a Cuneo sul tema “Liberali nel Popolo della Libertà” e l’altro a Genova sulle pratiche commerciali delle Coop rosse in Liguria (ora meno rossa).

Altra questione è quella del rapporto tra militanza e rappresentanza liberale nel centro-destra. In molti si sentono lasciati soli, o addirittura snobbati, dai politici di riferimento. Proprio per organizzare questa militanza, la Parte Liberale e il sito Neolib.eu hanno avviato in questi giorni, tramite Internet, un censimento di tutti i militanti liberali del centrodestra. La reazione è stata impressionante. Insomma il popolo liberale vi sta chiamando... voi risponderete?
Io credo di essere stato sempre presente. E continuerò ad esserlo. Risponderò insomma a tutte le chiamate... ripeto però: non ci deve essere una corrente, ma un’area liberale in cui si possa formare un’opinione di riferimento nel Pdl per un programma liberale moderno, illuminato dal grande ideale della libertà.

fonte: L'Opinione delle Libertà

Giovani Veneti

Online il nuovo sito www.giovani-veneti.org
Dal 9 maggio 2008 è online il nuovo sito del movimento Giovani Veneti. Con questa data particolare, a 11 anni dalla liberazione di piazza San Marco, abbiamo voluto legarci idealmente a quello che è stato il momento di svolta di questo processo di liberazione delle Terre e del Popolo Veneto.

Il nuovo sito, oltre ad una grafica nuova ed accattivante, implementa e facilita la gestione dei contenuti, permettendo di scaricare immagini, file, banner e sfondi; consente anche una più semplice consultazione dei comunicati, e a breve sarà attiva anche la sezione iniziative.
E' cambiato anche l'indirizzo così da avere più spazio per i contenuti e più libertà. Il vecchio indirizzo punterà in automatico a quello nuovo, ma consigliamo comunque di collegarsi direttamente al nuovo sito www.giovani-veneti.org .

Per San Marco,
Movimento Giovani Veneti

sabato 7 giugno 2008

No TAV: appuntamenti di giugno

"COMPRA UN POSTO IN PRIMA FILA"- Atto 2°
Appuntamento per la firma dell'atto di acquisto DOMENICA 15 GIUGNO al Presidio di Venaus


Torino: Martedì 10 Giugno, alle 21,
al cinema Baretti (via Baretti 4, zona S: Salvario)
ci sarà la proiezione del nuovo documentario "Il vento che fermò il treno", realizzato da Ambientevalsusa e prodotto da Pro Natura. INGRESSO LIBERO
qui di seguito è possibile visionarne il trailler:


No TAV: l'intervento di Marco Travaglio

venerdì 6 giugno 2008

Federalismo e identità: così la Catalogna fa la fortuna della Spagna

di Gilberto Oneto
La prima volta che sono andato in Spagna era agli inizi degli anni Sessanta quando ci volevano il visto e una buona dose di spirito dell’avventura. Da allora ci sono tornato tante volte da turista e ne ho registrato i cambiamenti.
Le scorse settimane ci sono andato proprio con lo scopo di infliggermi il doloroso compito di capire perchè lì il mondo sia andato avanti e da noi sia rimasto fermo. L’ho fatto scegliendo la Catalogna per trovare la massima analogia con la nostra realtà. Come la Padania è divisa in 8 regioni amministrative, il Paese catalano lo è in tre Comunità (la Catalogna propriamente detta, Valencia e le Baleari) e un pezzo di Aragona, in uno Stato indipendente (Andorra), un porzione di Francia (il Rossiglione) e un angolo di Sardegna (Alghero). Le similitudini sono tante: la Generalitat (Barcellona) ha circa la metà di tutta la popolazione catalana, la Lombardia un terzo di quella padana; entrambe le aree sono le più progredite, ricche ma anche intasate di immigrati dei due paesi.
40 anni fa la Spagna – Catalogna compresa - era un paese arretrato e povero: le sue strade erano oggetto di sarcasmo per tutta Europa, aveva ferrovie da Far West e le sole automobili locali erano poche migliaia di Seat 600 e alcuni ridicoli “minicoches” Biscuter o PTV, oggi oggetto di collezionismo come le Trabant. L’Italia (la Padania) era invece il quinto produttore di auto e si stava dotando della più efficace rete autostradale del continente. Tutto il resto seguiva lo stesso trend.
Oggi tutto è rovesciato. La Catalogna è stipata di Suv e di autostrade, e le strade ordinarie sono una meraviglia. L’intera regione è collegata con linee ferroviarie con caratteristiche (frequenza, puntualità, capacità) di metropolitane: il solo segno di “famigliarità” che possiamo cogliere sono i graffiti. Le linee metro di Barcellona sono il doppio di quelle di Milano. Il paese è pulitissimo, con sistemi di raccolta differenziata efficienti: soprattutto i centri minori fanno invidia agli svizzeri: le spiagge vengono “scopate” tutte le mattine e una deiezione canina fuori posto costa fino a 750 Euro.
Gli immigrati sono tanti ma non ci sono cinesi che espongono merce sui marciapiedi o zingari palesemente interessati alle altrui proprietà. I ristoranti espongono i prezzi, tutto costa meno e i casellanti dicono grazie e salutano.
Ma è soprattutto l’aspetto identitario a lasciare meravigliati e frustrati. La toponomastica è locale, simboli e bandiere catalane imperversano. La lingua è ovunque: in Padania la Repubblica riconosce solo qualche blando diritto al friulano. Sulla Rambla di Barcellona la Generalitat ha aperto una libreria in cui si trova tutto ciò che è catalano e catalanista, dai volumi d’arte ai manifesti, dai libri di storia fino a pubblicazioni decisamente indipendentiste. Come se la Regione Lombardia in Galleria vendesse i Quaderni Padani.
Tutto questo è frutto dell’autonomia e delle enormi risorse che la Catalogna si trattiene senza darle a Madrid. Ma è soprattutto il risultato del cuore e delle idee, della voglia di “fisicizzare” la libertà e l’identità. Del sentirsi catalani nella cultura prima ancora che nel portafoglio.
I soldi sono fondamentali ma occorre gestirli con intelligenza.
Al porto di Barcellona – pulito e ordinato – a ricevere i traghetti ci sono due poliziotti e due Guardia Civil. A Genova salgono a bordo 4 agenti a controllare i documenti (il traghetto parte da Tangeri ed è normale), all’uscita ce ne sono altri 4 o 5 e altrettanti finanzieri. Non è finita: poco più in là fra cartacce, furgoni mal posteggiati e anche un carrello di supermercato, staziona una dozzina di agenti in borghese che fermano tutti per chiedere da dove si arriva, cosa si è andati a fare e dove si va. Lo fanno senza altro segno di riconoscimento che la mitica paletta (icona dell’italico potere), sicuramente a fin di bene e per scoraggiare ingressi clandestini, ma anche alla faccia dell’efficienza (più di una ventina di agenti contro 4), di Schengen, dei diritti costituzionali e della buona educazione. Ecco la differenza con la Catalogna.
Ma coraggio: sugli edifici più alti del porto di Genova sventola la Croce di San Giorgio. Prendiamolo come segno di buon auspicio e di speranza.

Tabacci alla Lega: "non toglie l'Ici, chi vuole il federalismo"

La concorrenza che serve arriva con il federalismo

di Carlo Lottieri
Le posizioni in tema di federalismo fiscale cominciano a definirsi: e dopo la presentazione di un disegno di legge da parte del ministro Umberto Bossi, ora sono le regioni a prendere posizione. Abbiamo così il presidente lombardo Roberto Formigoni che sta sviluppando una sua rete diplomatica (anche in dialogo con il Pd), mentre pure il Sud si rende conto dell'urgenza della questione. In particolare, molto attivo appare Michele Iorio, presidente del Molise, che pur essendo di centro-destra si è detto disponibile a stringere alleanza con colleghi di sinistra al fine di tutelare il Meridione. Se la discussione si sviluppa però in questo modo, riproponendo vecchie contrapposizioni, si rischia di non andare da nessuna parte. Perché se certo è vero che con la riforma federale della finanza pubblica è destinato a diminuire (come è giusto che sia) il flusso di denaro che oggi raggiunge il Mezzogiorno, la questione cruciale è però un'altra.
I trasferimenti vanno ridotti perché - come tutti sanno - hanno fatto soltanto il male del Mezzogiorno. Da decenni Antonio Martino parla del denaro pubblico come di una droga che progressivamente indebolisce il tessuto sociale delle regioni meridionali, impedendo lo sviluppo di un'economia dinamica e basata sull'imprenditoria privata. Al tempo stesso, però, è del tutto ovvio che tale cambiamento avverrà in maniera graduale e che vi sarà un meccanismo perequativo che, almeno all'inizio, aiuterà le regioni più povere. Il punto allora è un altro.

Quello che al Nord e al Sud gli italiani devono comprendere è che il federalismo fiscale è nell'interesse di tutti, perché qui non si tratta tanto di dividere diversamente la torta, ma di farne crescere le dimensioni. Dare potestà fiscale ai comuni e alle regioni, eliminando o comunque fortemente ridimensionando il sistema dei trasferimenti (la cosiddetta finanza derivata), vuol dire introdurre una forte responsabilizzazione delle classi politiche locali, obbligandole a gestire e a spendere meglio il denaro che i loro elettori verseranno nelle casse degli enti locali. È questo un modo fondamentale per ridurre, se non eliminare, sprechi e clientele.

Ma ancor più importante è che si mettano in concorrenza tra loro le regioni e anche i comuni. Solo in questo modo possiamo sperare di avere tasse più basse (perché questo sarà l'esito della concorrenza) e servizi meglio gestiti. Se un paese federale come la Svizzera ha una tassazione molto inferiore della nostra è soprattutto perché spostandosi da un cantone all'altro si cambia il regime fiscale, e siccome si tratta di piccole realtà spostarsi è facile e poco costoso. Vedere nel progetto federalista soltanto una contrapposizione di egoismi rischia di non far cogliere il dato maggiore: e cioè che grazie a tale riforma l'intero Paese può uscire migliorato nel suo insieme, in condizione di avere classi dirigenti più responsabili, e meglio protetto nei diritti dei singoli, così da poter crescere e svilupparsi.

fonte: Il Tempo, 6 giugno 2008

lunedì 2 giugno 2008

humor: Vuoi diventare milanese? Ecco la scuola...

Giacomo Leopardi era leghista?

Naturalmente il titolo è forzato e provocatorio, ma vuole evidenziare come il poeta romantico venne spesso definito uno dei migliori scrittori nazionali, senza mai approfondire ciò che Leopardi pensava della nazione, e dell'Italia nello specifico. Emblematici sono alcuni suoi scritti nello Zibaldone, il suo diario personale, scritto tra il 1817 ed il 1832, e pubblicato nel 1900 da una commissione presieduta da Giosuè Carducci.
Egli era fortemente ostile al concetto delle macronazioni moderne che si stavano imponendo in gran parte dell’Europa, poiché definiva illegittimo ogni governo o stato, in quanto i cittadini non erano più tali, ma divenivano semplici sudditi. Leopardi non vedeva in questi macrostati delle nazioni o patrie, ma solo governi. Egli rimane ancorato all’idea di nazione del mondo antico, distinta da un carattere aperto e pubblico che favoriva la vita popolare; altresì individua, a partire dal XVII secolo in Francia, la nascita del dispotismo delle nazioni moderne, dove il potere rimaneva nelle mani di poche o, addirittura, di una sola persona.

Ma da che il progresso dell'incivilimento o sia corruzione, e le altre cause che ho tante volte esposte, hanno estinto affatto il popolo e la moltitudine, fatto sparire le nazioni, tolta loro ogni voce, ogni forza, ogni senso di se stesse, e per conseguenza concentrato il potere intierissimamente nel monarca, e messo tutti i sudditi e ciascuno di essi, e tutto quello che loro in qualunque modo appartiene, in piena disposizione del principe; allora e le guerre son divenute più arbitrarie, e le armate immediatamente cresciute. Ed è cosa ben naturale, e non già casuale, ma conseguenza immancabile e diretta della natura delle cose e dell'uomo.[1]

Riguardo alla situazione italiana, Leopardi denunciava una mancanza totale di un principio di aggregazione, a differenza di altri Stati come la Francia o l’Inghilterra, infatti in Italia era possibile rilevare la presenza di un popolo, ma non di una nazione, poiché al suo interno esistevano usanze differenti tra loro, non costumi. Egli rileva quindi la mancanza, fondamentale, di comportamenti uniformi e condivisi da quelli che dovevano essere “cittadini italiani”. L’Italia, per Leopardi, non poteva essere un'unica patria perché non possedeva un'unica capitale, una lingua condivisa o istituzioni comuni.

La Germania ne profitta per la libertà della sua lingua. Noi non potremo, se prevarranno coloro che ci vogliono ristringere al toscano, anzi al fiorentino. Cosa ridicola che in un paese privo affatto di unità, e dove nessuna città, nessuna provincia sovrasta all’altra, si voglia introdurre questa tirannia nella lingua, la quale essenzialmente non può sussistere senza una simile uniformità di costumi ec. nella nazione, e senza la tirannia della società, di cui l’Italia manca affatto. E che Firenze che non è stata mai il centro dell’Italia (e che ora è inferiore a molte altre città negli studi, scrittori ec. e fino nella cognizione della colta favella) debba esserlo della lingua, e della letteratura. E che si voglia imporre ad un paese privo non solo di vasta capitale, non solo di capitale qualunque, e quindi di società una e conforme, e d’ogni norma e modello di essa, ma privo affatto di società, una soggezione (in fatto di lingua ch’è l’immagine d’ogni cosa umana) più scrupolosa di quella stessa che una vastissima capitale, un deciso centro ed immagine e modello e tipo di tutta la nazione, ed una strettissima e uniformissima società, impone alla lingua e letteratura francese. Certo se v’è nazione in Europa colla cui costituzione politica e morale e sociale convenga meno una tal soggezione in fatto di lingua (e la lingua dipende in tutto dalle condizioni sociali ec.), ell’è appunto l’Italia, che pur troppo, a differenza della Germania, non è neppure una nazione, nè una patria.[2]

Il poeta, analizzando la situazione italiana, non rilevava un popolo formato da cittadini, ma solamente una mescolanza di individui che vivevano in ambienti diversi; egli infatti evidenzia le problematiche delle regioni meridionali in quanto ad arretratezza civile e diversità etnica, culturale e linguistica rispetto alle regioni settentrionali. Emblematico rimane il suo pensiero sulla civiltà antica e su quella napoletana:

Ci resta ancora molto a ricuperare della civiltà antica, dico di quella de’ greci e de’ romani. Vedesi appunto da quel tanto d’instituzioni e di usi antichi che recentissimamente si son rinnovati: le scuole e l’uso della ginnastica, l’uso dei bagni e simili. Nella educazione fisica della gioventù e puerizia, nella dieta corporale della virilità e d’ogni età dell’uomo, in ogni parte dell’igiene pratica, in tutto il fisico della civiltà, gli antichi ci sono ancora d’assai superiori: parte, se io non m’inganno, non piccola e non di poco momento. La tendenza di questi ultimi anni, più decisa che mai, al miglioramento sociale, ha cagionato e cagiona il rinnovamento di moltissime cose antiche, sì fisiche, sì politiche e morali, abbandonate e dimenticate per la barbarie, da cui non siamo ancora del tutto risorti. Il presente progresso della civiltà, è ancora un risorgimento; consiste ancora, in gran parte, in ricuperare il perduto. Addolcendosi i costumi, diffondendosi le cognizioni e la coltura delle maniere nelle classi inferiori, avanzandosi la civiltà, veggiamo che i grandi delitti o spariscono, o si fanno più rari. Se mancati i grandi delitti e i grandi vizi, potranno aver luogo le grandi virtù, le grandi azioni, questo è un problema, che l’effetto e l’esperienza della civilizzazion presente deciderà per la prima volta. Parlando con un famoso ed eloquente avvocato napoletano, il Baron Poerio, che ha avuto a trattare un gran numero di cause criminali nella capitale e nelle provincie del Regno di Napoli, ho dovuto ammirare in quel popolo semibarbaro o semicivile piuttosto, una quantità di delitti atroci che vincono l’immaginazione, una quantità di azioni eroiche di virtù (spesso occasionate da quei medesimi delitti), che esaltano l’anima la più fredda (come è la mia).[3]

Danilo Formica

[1] G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, cit. p. 905

[2] G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, cit. pp. 2064 - 20065

[3] G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, cit. p. 4290